MARTINA MACCIANTI: ARTE, SUONO, QUEERNESS (2/2)

MARTINA MACCIANTI: ARTE, SUONO, QUEERNESS (2/2)

Una riflessione sulla trasformazione sociale attraverso la pratica artistica e l’ascolto.


«By imposing rigid categories upon individuals, we deny the complexity of human subjectivity. We must dismantle the structures that confine us, liberating ourselves from the chains of binary thinking. Only then can we truly embrace the multitude of identities that exist within us.»
Paul B. Preciado

Voci/Scambi
L’arte, nelle sue diverse e plurali espressioni, è ed è stata uno strumento per esplorare e scoprire nuovi mondi, per mettere in discussione norme e valori dominanti che spesso perpetuano disuguaglianze ed esclusioni. Porsi domande. Abilitare spazi per le voci e l’espressione, riscrivendo la nostra percezione del mondo, creando nuove narrazioni e punti di vista. Può essere utilizzata in modo trasversale per rileggere eventi passati e presenti sotto nuove prospettive. Essere uno strumento per la costruzione di una società diversa. Suono ed ascolto, ad esempio, possono diventare mezzo per esplorare l’identità e la politica.

Il cuore di queste riflessioni è la necessaria rottura e frammentazione del binarismo che guida ogni cosa per come la conosciamo. Abilitare una comprensione profondamente queer di ciò che vediamo o sentiamo, mettendo da parte l’esigenza morbosa di incasellare e proporre una risposta verticale, assoluta e binaria ad un’azione. A festival con programmi composti prevalentemente da uomini, la risposta non può superficialmente essere una fetta di quote rosa da inserire. Il sistema da mettere in discussione è più ampio e ha radici profonde. In questo esempio banale proposto il punto è questo: qui, adesso, il bug da risolvere non è rappresentativamente una sostituzione di genere da attuare, quanto una decostruzione personale e collettiva di ruoli e abilitazione di possibilità.

Dalle teorie di Eshun e Goodman a Pauline Oliveros, mettendo in luce l’importanza dell’intersezionalità e della tecnologia nella creazione di nuovi spazi sonori e nella riformulazione delle identità, rimarcando la centralità delle questioni di genere e dei margini sociali, la “potenza auricolare” diventa uno strumento per un’esplorazione più profonda e consapevole delle possibilità offerte dal suono e dalla musica, e per la costruzione di un futuro più inclusivo.

Attraversando poi tre dimensioni cruciali in questa prospettiva: DIALOGO, CONDIVISIONE, LOTTA. Nel contesto della lotta, tema centrale nella mia personale ricerca, ponendo l’attenzione sul tema della rabbia, spesso vista come un’emozione da domare, da controllare. Cosa succederebbe se, invece di reprimerla, decidessimo collettivamente di orchestrarla, di trasformarla in un potente strumento di cambiamento? Da sentimento represso a sinfonia, un’opera d’arte potente e provocatoria, che risuona con una forza tremenda in chi l’ascolta. Questa sinfonia di rabbia rappresenta qui un invito ad ascoltare con un’orecchio queer, con una sensibilità che vada oltre le tradizionali dicotomie di genere e sessualità. È un ascolto che non si limita a riconoscere l’ingiustizia, ma che la fa propriamente sentire, che ci permette di entrare in sintonia con la rabbia, di comprenderne il potere ed il potenziale.
Trasformare, quindi, la rabbia in un desiderio, in una passione per il cambiamento. Diventare parte di un corpo collettivo che desidera e lotta per un mondo possibile, di ogni corpo e non-corpo. Un invito ad amare e desiderare in modo politico, un invito a sentire la lotta per l’equità non solo come un dovere etico, ma anche come un desiderio erotico.

Arrivando ad una riflessione sulla pratica musicale come potente strumento per comprendere in profondità ciò che ci circonda e per indagare le dinamiche sociali e politiche che influenzano la nostra vita quotidiana, utilizzando una lente politica quando interagiamo col mondo musicale.

Gli scambi che seguono hanno l’obiettivo di esplorare la relazione tra arte, suono, queerness ed il potenziale politico della pratica artistica. Attraverso l’analisi ed il contributo delle parole di tre donne che, in modi e pratiche differenti, hanno la capacità di esplorare le identità attraverso l’espressione artistica, si vuole offrire una prospettiva stimolante sulla pratica artistica e sulla sua relazione con la politica e la società; un invito a riflettere sulla natura del suono e della pratica artistica in generale considerando il loro potenziale politico e sociale, la loro capacità di creare spazi di espressione e di ascolto per le voci marginalizzate, aprire a nuove prospettive, creare rappresentazione.

Uno spazio infinito. Una rovina. Sound system che risuonano la musica più emotiva mai composta. Tutti in ascolto. Nessuna divisione, nessun binarismo. Un sogno in cui piangere di gioia, forte di amore.

CON CLAUDIA ATTIMONELLI
Claudia Attimonelli è ricercatrice in Media Studies e Visual Culture, professoressa di Studi visuali e cultura digitale e Media, cultura visuale e sound studies all’Università degli Studi di Bari Aldo Moro; è docente di Studi visuali e multimediali al Master in Giornalismo Ordine dei Giornalisti all’Università di Bari. È responsabile scientifico dell’Archivio di Genere dell’Università di Bari; coordinatrice del progetto MEM – Mediateca Emeroteca Musicale e dirige i Dialoghi sul Big – Bari International Gender Festival; è visiting professor presso l’Università Uerj (Rio de Janeiro) e chercheuse associée dell’Université Paul-Valéry (Montpellier).
Le sue ricerche sulla techno e l’Afrofuturismo sono considerate seminali nel panorama italiano e internazionale; si interessa di questioni di genere, stili urbani e culture musicali.
Come curatrice collabora con teatri, istituzioni e gallerie nell’ambito dei linguaggi audio e visuali; nel 2023 ha curato la mostra internazionale: 30 years of Kompakt: The visual side of Music.
Tra le sue pubblicazioni: L’elettronica è donna. Media, corpi e pratiche transfemminste e queer (con C. Tomeo 2022); L’estetica del malessere. Il nero, il teschio, il punk (2020); Un oscuro riflettere. Black Mirror e l’aurora digitale (con V. Susca 2020, tradotto in 3 lingue); Techno. Ritmi afrofuturisti (2008-2018); Pornocultura (con V. Susca 2016, tradotto in 4 lingue).


Martina: Voglio parlare con te di rappresentazione. Quando si parla di donne, corpi marginalizzati e/o razzializzati, in musica, alla necessità di sentire quelle voci, ci si imbatte spesso in un muro che si nasconde dietro la frase “ma la musica è musica”, sottintendendo che – ad esempio – se in un festival saranno ospitati soltanto musicisti uomini, o uomini bianchi, non sarà qualcosa di negativo, perché la musica è musica, che scinde da qualsiasi discorso socio-politico, e che non può essere un’obbligatorietà (le quote rosa che sentiamo rammentare in politica, nel lavoro) andare altrove. Quello che si perde, in queste mani avanti, è il tema della rappresentazione, dell’importanza di vedere su un palco qualcuno che ti somigli, e ti stimoli all’espressione, una voce che arrivi da altri punti, da altri lidi. Cosa ne pensi tu? Credi si possa costruire qualcosa di realmente aperto e di tutti i corpi, superando questo muro?

Claudia: Rappresentazione e visibilità sono i criteri al centro del discorso legato alle donne e alle persone Lgbtqia+ in relazione ai luoghi di maggiore esposizione, spettacolarizzazione e generazione di figure capaci di costituire modelli cui fare riferimento da parte delle generazioni più giovani. Ovvero le persone e i corpi che si sono trovati sempre ai margini di quel sapere che per secoli si è costituito attorno a istituzioni le quali non prevedevano alcuna forma di accesso alle donne e alle persone Lgbtqia+, si trovano oggi nella condizione di poter rinegoziare la propria presenza, io credo, al di là delle detestabili quote rosa. La frase che tu riporti “ma la musica è musica”, richiede una duplice riflessione e per certi versi produce un pensiero in apparente contraddizione che tenterò di illustrare: è vero che il sistema delle quote di genere
(meglio chiamarle così che non quote rosa) così come gli assi di finanziamento europei che richiedono ormai da tempo interventi mirati a colmare o perlomeno correggere il gender gap in ambito professionale, innescano a volte effetti controproducenti in merito agli obiettivi raggiunti attraverso lotte sulle questioni di genere e nello specifico sulla rappresentazione e la presenza di persone normalmente escluse da cartelloni di festival, da talk e panel (i cosiddetti manel, panel con solo uomini), da eventi musicali di varia natura. 

Tali effetti derivano dalla necessità di dover adottare un sistema, il quale, per correggere l’assenza plurisecolare delle donne e delle persone Lgbtqia+ da tali luoghi, opera una forzatura di quote, cioè quantitativa, che non sempre ottempera quella qualitativa, pertanto può accadere, ad esempio, che in una line-up di chiusura di un festival di musica elettronica si presenti la richiesta di far chiudere l’evento ad una dj, la quale potrebbe essere selezionata tra i nomi del gotha delle dj star, oppure, nel caso non vi fossero sufficienti mezzi economici, individuata altrimenti inseguendo la questione delle quote di genere, quest’ultima ipotesi potrebbe arrecare il seguente problema: l’inesperienza a ricoprire un tale ruolo di responsabilità come il set di chiusura alle 5 del mattino dopo una nottata intensa di suoni e danze, può pesare sulla prestazione e sulla performance offerta dalla dj in questione, la quale si troverebbe nella scomoda posizione di ricevere tutte le critiche del caso, le quali peraltro avvalorerebbero la tesi secondo cui le donne siano meno portate o non siano all’altezza di ricoprire certi ruoli, peggiorando di gran lunga lo stereotipo che il sistema delle quote vorrebbe correggere. 

E qui c’è la contraddizione che alcuni dei saggi del nostro volume cercano di indagare e far emergere: tenute lontane per millenni – secondo la storia della cultura occidentale – dai luoghi di formazione e di esposizione di linguaggi espressivi da sempre accreditati al maschile, le donne e le persone ai margini del paradigma patriarcale che ben conosciamo necessitano di molti anni, financo decenni, per trovarsi finalmente in una condizione di parità, nella quale il grande gap che le separa dai colleghi uomini, sarà se non colmato, di molto ridimensionato. In questo lungo tempo che intercorre, personalmente ritengo
debbano intervenire modalità di ascolto, pazienza e comprensione, affinché non ci si scagli
immediatamente contro un fallimento femminile in contesti dove le donne si affacciano per le prime volte, tanto più che siamo da sempre abituate/i ad avere a che fare con molta genialità maschile ma anche con un’inevitabile mediocrità: quante volte troviamo noioso, difettoso, non all’altezza una performance, un talk, un evento di soli artisti “maschi”?, è naturale che accada, anche solo per una ragione di eccezionalità del genio. Sicché non si capisce per quale ragione dalle donne in posizioni apicali, o in ruoli performativi inediti per loro, ci si attenda sempre l’eccellenza e non si ammettono errori, debolezze e fragilità, con financo lo sguardo critico sempre pronto ad individuare difetti, errori e mancanze.

È molto importante per superare il dilemma delle quote di genere, disinnescare i pericolosi ordigni della competitività a tutti i costi, della prestazione perfetta vs la possibilità dell’imperfezione, la ricerca della genialità vs l’affermazione di una condizione in cui la presenza di donne diviene normale, tra di esse alcune emergeranno altre rientreranno nella norma. Obiettivo del volume curato da me e Caterina Tomeo, grazie ai numerosi interventi delle autrici, è quello di proporre un paradigma che non sia incentrato sul rinvenimento di modelli del passato geniali e dunque difficilmente replicabili nella loro unicità, quanto piuttosto di seguire la traccia della tecnologia per individuare strategie e approcci tramite i quali persone da sempre escluse dal fattore tecnologico siano capaci di percorrere vie altre per operare, manipolare,
ricreare, ricombinare, detournare macchine e strumenti.

Martina: Parlando di arte, suono ed ascolto come atto politico. Uno dei capitoli che mi sta particolarmente a cuore e che ho più ho esplorato del libro curato da te e da Caterina (L’elettronica è donna. Media, corpi, pratiche transfemministe e queer, Castelvecchi editore, 2022) è quello di Daniela Gentile, Oltre l’ascolto. Andare oltre il semplice ascolto (o la semplice vista, se si parla di altre espressioni artistiche), e si prova ad esperire davvero quello che troviamo di fronte a noi, si possono superare bias, andare oltre l’educazione indirizzata, coloniale e patriarcale, che – in Occidente soprattutto – ci definisce indirettamente. Lo spazio artistico, la sua espressione, se reso fluido ed aperto può essere rivoluzionario. Credo personalmente che l’arte, sia visiva sia musicale, che di qualsiasi forma espressiva, possa essere mezzo potente di decolonizzazione e depatriarcalizzazione del nostro sguardo, anche di quelli più resistenti. Per te quale è il valore e la potenza politica dello spazio artistico?

Claudia: Mi piace pensare all’arte come a qualcosa di non strettamente politico, quanto piuttosto, per usare un’espressione di Susca e De Kerckhove (2007), transpolitico, laddove il politico asservirebbe l’arte, rendendola un linguaggio povero e con finalità schiacciate alla rincorsa di un messaggio, l’arte resta invece un avamposto di pensiero: l’unico spazio/tempo libero e pertanto in grande di porre domande, di far emergere contraddizioni, di attivare conflitti e mettere in crisi il discorso dominante. La pratica dell’ascolto che tu citi a partire dal saggio di Daniela Gentile ne è un esempio. Di per sé attraverso l’ascolto si accoglie l’alterità di tutte le voci e i suoni in cui siamo immersi o che ci giungono da lontano per il tramite dei media che li diffondono fino a penetrare le nostre orecchie. Dei versi di una canzone, alcuni campionamenti
all’interno di un set remixati gli uni accanto agli altri allorché raggiungono le nostre orecchie e vi penetrano all’interno, di fatto iniziano ad abitarci e ci rendono un corpo espanso, percorso dai suoni di Altri, secondo il concetto di alterità e di Altri elaborato dal filosofo francese Emmanuel Lévinas. Attraverso l’ascolto si attiva una forma di ibridazione potente e virale, una contaminazione sonica che ci infetta dell’altro/a, ne fa un corpo sonico da condividere, senza che dentro vi debbano essere proclami militanti, poiché, mcluhanianamente è il medium stesso a farsi portatore di senso politico grazie alla larga diffusione e all’accessibilità inarrestabile dell’altro/a.

Pauline Oliveros in Quantum Listening (2005), parla di “potenza auricolare” che permette di far risuonare le marginalità, chi si trova ai confini e deborda (Oliveros, Sounding the Margins – 2010), una potenzialità che attinge dalle avanguardie futuriste e in particolare dal L’Arte dei Rumori, il Manifesto di Luigi Russolo, che nel 1913 parlò dei rumori del paesaggio sonoro della città novecentesca rispetto a quello della campagna, immaginando di poterli orchestrare e tradurli in suoni al passo con i tempi e lo spazio che si attraversa. Un tale spazio inedito è fatto di corpi che lo significano con la propria identità.

Allo stesso modo nella pratica del djing e del sampling, secondo le teorie di Kodwo Eshun, autore ghanese-inglese e teorico dell’afrofuturismo, così come nelle parole di Steve Goodman aka Kode9, i campionamenti sonici nel loro remixarsi dei set elettronici instaurano una battaglia sonora, “Sonic Warfare. Sound affect and the ecology of fear” (Goodman, 2010), diffondono, cioè, quella che io chiamo una guerriglia sonica intersezionale, attraverso la quale si remixano, si manipolano, si “effettano” unità minime di suono – i sample – la cui provenienza è al di là del binarismo di genere, della provenienza geografico- culturale, dell’età, dello stile musicale. Le due parole chiave, infatti, di un discorso vasto attorno ad ascolto e gender issues, per me, sono “intersezionalità” e “technologia”, dove l’H non è un errore bensì un glitch, un malfunzionamento del sistema di senso già dato, un valore augmented di cui le donne si riappropriano con finalità volte a innescare processi di incantamento, estasi, potenza ritmica, sensualità e corporeità di
cui la danza è uno degli effetti.

Pic by Kajetan Sumila

CON DIANA LOLA POSANI
Studiosa della voce e performer, facilitatrice di Deep Listening e curatrice indipendente, Diana Lola Posani è la fondatrice di AKRIDA, un festival nomade di sound art che ha visto la sua prima edizione a Milano lo scorso anno con artiste come Merlin Nova, Clara de Asís, Janneke Van Der Putten e Rie Nakajima e che oggi si prepara verso nuove tappe. AKRIDA è un festival corporeo che si basa su un assunto essenziale: il suono è la modificazione dello spazio esperito con il corpo e dà spazio ad artiste che hanno un rapporto molto stretto con l’organico, il materico, con le texture dei loro strumenti come quelle della voce. Mettere al centro individualità libere di autodefinirsi con la propria corporeità e le proprie pratiche, con una visione acuta e personale, è parte del lavoro di Posani, la cui poetica spazia in un vasto orizzonte di indagine filosofica e sensoriale attraverso il gesto e la sperimentazione vocale.
Diana Lola Posani ha tradotto per Timeo il libro Deep Listening (Pauline Oliveros).


Martina: Viviamo una società in cui l’essere sordi rispetto alle altre voci, alla profondità dei suoni, è un imperativo. Come possiamo, oggi, re-imparare e comprendere il potere di un ascolto che vada oltre, portando questa pratica nel nostro quotidiano? Anche e soprattutto nelle dinamiche di condivisione, dialogo e lotta, come la conversazione femminista.

Lola: 1. DIALOGO. Per iniziare a rispondere a questa domanda prenderò in prestito la definizione “palinsesto acustico” coniata da Martin Daughtry: il palinsesto è un manoscritto medievale che dopo essere stato lavato e riscritto continua a mantenere tracce del testo precedente, e Daughtry utilizza questa metafora per definire una comunicazione che comprenda anche ciò che apparentemente non c’è. E con questo si intende l’inspiegabile ma anche, e soprattutto, il silenziato. Spesso è utile chiedersi: quali sono gli spettri acustici di questa conversazione? Le voci che non hanno lo spazio per parlare? Le storie dimenticate, i dubbi inespressi?
Sono convinta che tutto ciò che viene rimosso con violenza tenda a riemergere, come nel caso dei palinsesti. Il processo è lento ma inevitabile. Spesso si concentra inutilmente l’attenzione sul far riapparire l’invisibile, piuttosto che sul rispettarlo. Guardando un palinsesto il rischio di sovraccarico nell’ascoltare appare chiaramente. Il riuscire ad abbracciare contemporaneamente tutti le posizionalità d’ascolto possibili può diventare una trappola di paradossi, una frustrazione continua verso la nostra umana limitatezza. La soluzione che propone Dylan Robinson in Hungry Listening è quella di un ascolto oscillatorio, ovvero un ascolto che non cerca di passare da una posizionalità all’altra, ma che oscilla nella relazione che unisce i diversi strati.
Forse grazie a questo tipo di ascolto oscillatorio si può davvero fluttuare tra le diverse singolarità e aprirsi alla natura profonda della voce, ovvero una natura collettiva e condivisa. E semplice.
2. CONDIVISIONE. Quando parlo di ascoltare non voglio intendere la divisione binaria tra ascolto-passivo, ed espressione-attiva. Una divisione che associo anche al binarismo di genere femminile-maschile.
La mia mente ritorna freneticamente al mito di Eco e Narciso, a questa radicale suddivisione che diventa per entrambi una maledizione. Cosa significa porsi in un ascolto attivo, e come ci si esprime ricettivamente? È sicuramente un’indagine complessa, spesso dolorosa.
Pensando a questo, mi torna in mente una performance di LYGIA CLARK, intitolata BABA ANTROPOFÁGICA: “Un uomo steso a terra, inerme e cogli occhi chiusi, viene accerchiato da un gruppo di persone che lentamente dipana dalla bocca un filo colorato, poggiato sul corpo dell’uomo. Cominciano dai piedi ma presto anche il volto è ricoperto. Al termine dell’azione i fili vengono sollevati e, liberato l’uomo, s’instaura una discussione tra i partecipanti i quali, a turno, si stendono a terra per subire la stessa sorte. (…) Clark ha l’idea in sogno, dove dalla sua bocca vede fuoriuscire una sorta di ectoplasma: “Ho sognato che aprivo la bocca e tiravo fuori una sostanza ininterrottamente. Mentre questo accadeva avevo l’impressione di perdere la mia sostanza interna, un fatto che mi angosciava molto soprattutto perché non riuscivo a smettere di perderla”. (…)
Come ammetteva in una lettera a Helio Oiticica datata 6 luglio 1974, la costituzione di tale corpo collettivo non era indolore e non si poggiava su alcuna esperienza pregressa: “Questo scambio non è piacevole… È uno scambio di qualità psichiche e la parola ‘comunicazione’ è troppo debole per esprimere quanto accade all’interno del gruppo”.

Non fatico ad immaginare quanto questa pratica possa essere stata dolorosa. In primo luogo perchè, come commenta Lygia Clark, non poteva smettere di emettere la propria sostanza, la propria essenza. Allo stesso modo, importa quanto entrare in relazione possa metterci in discussione, ferirci o farci arrabbiare, non possiamo bloccare questo processo. Non possiamo asportarci chirurgicamente dal corpo collettivo che abitiamo.
3. LOTTA. La vibrazione costituisce ogni cosa, la interseca, attraversa. Chiaramente genera delle domande di tipo amoroso, che in quanto tali spalancano abissi di possibilità, di creazione e di sofferenza. Concretamente: come si rimane in ascolto nonostante la rabbia?
Audre Lorde parla di sinfonia di rabbia “Dico sinfonia invece di cacofonia perché abbiamo dovuto imparare a orchestrare queste furie perché non ci dilaniassero”. Prendere la rabbia e orchestrarla, non domarla. Ecco, questa sinfonia di rabbia mi auguro per un ascolto veramente queer, che sappia trasformare la consapevolezza dell’ingiustizia in una permeabilità erotica con il corpo collettivo.

Pic by Dima Kosh

CON LUISA SANTACESARIA
Luisa Santacesaria è musicista, musicologa e curatrice. Diplomata in pianoforte, che ha studiato alla Scuola di Musica di Fiesole, si è laureata presso il Dipartimento di Musicologia e Beni Culturali di Cremona (Università di Pavia) con una tesi sul rapporto fra suono e spazio nella musica elettroacustica. Nel 2016 e 2017 è stata curatrice musicale del Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato. Collabora con gli Amici della Musica di Firenze, l’Università di Firenze, il Centro Studi Luciano Berio e cura per Tempo Reale la rassegna di musica sperimentale TRK. SOUND CLUB e il sito web musicaelettronica.it. Ha creato con Valentina Bertolani il progetto Curating Diversity (curatingdiversity.org), che si occupa di analizzare le politiche culturali e di inclusione all’interno del sistema musicale italiano. È parte del collettivo Blutwurst e degli Esecutori di Metallo su Carta dell’etichetta 19’40”.

Martina: In un mondo in costante corsa sembra che l’ascolto attento, che vada oltre la superficie, sia un miraggio. Credo però che esercitarsi, ad esempio, all’ascolto di artistə fuori dalla nostra zona di comfort, di voci spesso marginalizzate, possa abilitare riflessioni ulteriori, ed aprire ad una comprensione più ampia della realtà. Cosa ne pensi? Cosa possiamo portare dalla pratica musicale, ed artistica in generale, per aiutarci a comprendere in profondità ciò che ci circonda?

Luisa: Ci sono diversi elementi da prendere in esame, nella tua domanda. Partiamo dalla scelta personale di fare certi ascolti, in particolare di musiche, come scrivi, di «artistə fuori dalla nostra zona di comfort, di voci spesso marginalizzate». Il concetto che ogni opera d’arte non possa definirsi “neutra” o “pura” ma che sia un risultato di una serie di elementi, alcuni legati direttamente all’autorə/artistə (gender, background etnico, età, condizioni economiche, contesto sociale, geografico e storico in cui vive), altri legati allo spazio di fruizione dell’opera (“chi” siamo noi e “dove” ci troviamo quando entriamo in contatto con l’opera), è stato espresso ormai da molte persone. Scegliere quindi di ascoltare certə artistə, certi repertori, può portare all’incontro e alla conoscenza di mondi, idee, sensibilità che possono darci, effettivamente, una comprensione più ricca della realtà di oggi ma anche della storia che ci ha preceduto.
 
L’altro elemento della tua domanda è quello dell’accessibilità di certi ascolti. Tu parli di esercitarsi all’ascolto, quindi della possibilità di chiunque di scegliere per sé stessə cosa ascoltare nella miriade di offerte a cui abbiamo, più o meno facilmente, accesso. Pensiamo, per esempio, che gli ascolti che più facilmente riusciamo a reperire in rete o nei cataloghi discografici delle etichette – e mi riferisco a opere e autorə, di qualsiasi genere musicale e periodo storico – o che vediamo in programma nel sistema concertistico italiano e internazionale, sono frutto di una selezione sistemica fondata su criteri fondamentalmente economici, sociali e politici. Pertanto, scegliere di ascoltare opere di autorə resə marginalə da questa selezione sistemica può definirsi un atto politico di per sé e un modo per creare per queste musiche nuovi spazi per vivere. Se però ci mettiamo dalla parte di chi sceglie per altrə, quindi di chi ha una posizione di potere nel diffondere la musica (curatorə di etichette, direttorə artisticə, esecutorə, ecc.), in base a quello che decidiamo di diffondere, pubblicare, programmare prendiamo delle precise posizioni politiche. 
Nel 2018, con la musicologa Valentina Bertolani abbiamo creato il progetto Curating Diversity (www.curatingdiversity.org), con l’obiettivo di analizzare le politiche culturali e di inclusione del sistema musicale italiano. Ci siamo messe ad analizzare a livello quantitativo il rapporto tra compositori e compositrici eseguitə e tra solisti e soliste invitatə nelle stagioni concertistiche 2018/2019 di musica sinfonica e cameristica a Milano e Firenze finanziate da fondi pubblici. Nella nostra analisi abbiamo, molto schematicamente (approccio con conseguenze sempre problematiche), diviso le persone in donne/uomini e bianchə/non bianchə, con l’intenzione di dare una lettura intersezionale della situazione. Ci siamo poi concentrate su stagioni e festival di musica contemporanea e sperimentale, conducendo lo stesso tipo di analisi quantitativa, per andare a guardare contesti dove si forma il nuovo canone (quindi, dove si contribuisce a decidere quali saranno ə compositorə che saranno più programmatə e ascoltatə in futuro). 
Alla raccolta di dati quantitativi abbiamo aggiunto quella di dati qualitativi, conducendo interviste semi-strutturate con alcunə dei direttorə artisticə e curatorə delle istituzioni e realtà che avevamo analizzato. In queste interviste, abbiamo chiesto quale fosse la missione dell’istituzione, la sua politica culturale, come funzionasse la sua organizzazione interna e, alla fine dell’intervista, abbiamo mostrato ai direttorə artisticə i dati raccolti e le – terrificanti – percentuali, dove la stragrande maggioranza delle presenze nelle varie programmazioni era, incredibilmente, di uomini bianchi. Tutte le infografiche di queste analisi e le nostre pubblicazioni si trovano sul sito www.curatingdiversity.org.
 
Tu chiedi “cosa possiamo portare dalla pratica musicale per aiutarci a comprendere in profondità ciò che ci circonda”. Fare certi ascolti o creare spazi per certə artistə può avere un impatto, più o meno forte, sul sistema. Usare questa lente politica quando interagiamo col mondo musicale può essere un modo, se vogliamo, per vedere le sue distorsioni e le discriminazioni che mette in atto, per leggerlo da una prospettiva diversa e trovare una spinta per creare nuovi spazi e cambiare le cose.

Martina Maccianti, classe 1992, vive a Firenze e scrive di femminismo passando per diverse e traverse direttrici. È la fondatrice di Fucina, spazio online che tratta temi quali sessualità, diritti, parità, ecologia, passando quando possibile per  arte e musica. Martina Maccianti è prima di ogni cosa femminista, e vede in un femminismo che è conscio delle diverse e plurali oppressioni che possono agire, l’unico punto di soluzione per una società che non da lo stesso spazio ad ogni persona.